1.
Il pensiero della modernità si caratterizza per la volontà di dare corso alla separazione della filosofia dalla teologia. La dimensione del trascendente non deve, cioè, interferire con gli eventi del mondo. Pertanto, il metodo logico-deduttivo proprio della scienza finisce per applicarsi non soltanto alla conoscenza della natura, come era stato indicato da Galileo e da Cartesio, ma anche allo studio dell’esperienza politica e giuridica e all’indagine sull’uomo. Spiega Hobbes: “Se si conoscessero con uguale certezza le regole delle azioni umane, come si conoscono quelle delle grandezze in geometria, sarebbero debellati l’ambizione e l’avidità (…) e la razza umana godrebbe di una pace costante”. La razionalità diventa il tratto distintivo del sapere e la natura dell’uomo è ricostruita in termini convenzionali sotto forma di stato di natura, una condizione originaria, in cui l’uomo appare come individuo, come un atomo, egoista, solitario, dotato di tutti i diritti e di tutte le libertà, dalla quale è necessario uscire per pervenire con un atto di volontà allo stato di società, dove l’individuo incontra gli altri e si adatta alle limitazioni necessarie a consentire le relazioni interindividuali.
Il pensiero della modernità si caratterizza per la volontà di dare corso alla separazione della filosofia dalla teologia. La dimensione del trascendente non deve, cioè, interferire con gli eventi del mondo. Pertanto, il metodo logico-deduttivo proprio della scienza finisce per applicarsi non soltanto alla conoscenza della natura, come era stato indicato da Galileo e da Cartesio, ma anche allo studio dell’esperienza politica e giuridica e all’indagine sull’uomo. Spiega Hobbes: “Se si conoscessero con uguale certezza le regole delle azioni umane, come si conoscono quelle delle grandezze in geometria, sarebbero debellati l’ambizione e l’avidità (…) e la razza umana godrebbe di una pace costante”. La razionalità diventa il tratto distintivo del sapere e la natura dell’uomo è ricostruita in termini convenzionali sotto forma di stato di natura, una condizione originaria, in cui l’uomo appare come individuo, come un atomo, egoista, solitario, dotato di tutti i diritti e di tutte le libertà, dalla quale è necessario uscire per pervenire con un atto di volontà allo stato di società, dove l’individuo incontra gli altri e si adatta alle limitazioni necessarie a consentire le relazioni interindividuali.
Dalla
filosofia moderna trae origine il processo di secolarizzazione, che si
prospetta nelle due forme complementari e coincidenti della umanizzazione di
Dio e della divinizzazione dell’uomo. Il primo effetto si palesa evidente
nell’analisi politica di Hobbes, allorché il filosofo inglese definisce lo
Stato “Dio mortale”. Del secondo ci fornisce una immediata rappresentazione
Rousseau, quando sintetizza i caratteri dell’uomo naturale: l’individuo è
“tutto per sé, l’unità numerica, l’intero assoluto che non ha altro rapporto se
non con se stesso”.
In
tal modo è stata frantumata l’unità dell’orizzonte etico dell’uomo, patrimonio
della classicità, è si è prodotta la frammentazione e la parcellizzazione
dell’essere dell’uomo. La distinzione tra stato di natura e stato di società ha
dato avvio alla separazione tra pubblico e privato, tra sfera dell’interiorità
e sfera dell’esteriorità, tra diritto e morale, tra teoria e prassi. La
politica e il diritto non possono essere influenzati da giudizi di valore. Il
piano dell’etica si profila del tutto soggettivo: i valori etici non possono
essere oggetto di conoscenza, ma sono solamente espressione di emotivismo; il
politeismo dei valori giustifica la diffusione del relativismo etico e il
profilarsi di un essenziale polimorfismo delle fedi. L’elemento religioso viene
confinato nello spazio della coscienza, del tutto estraneo alle scelte che
attengono alla sfera del pubblico.
2.
Questo quadro costituisce l’origine “politica”
dell’idea di laicità, che si connota per la forza di fare a meno di qualcosa,
di non essere qualcuno o di non avere cose che altri sono o possiedono. Ma che
conduce molto spesso alla negazione di ogni richiamo all’assoluto e al
conseguente riconoscimento di una prospettiva relativistica, a cui si attribuisce
la capacità di realizzare un processo di inclusione di tutte le differenti
“tavole di valori” concorrenti.
Ciò favorisce
una valutazione del problema della laicità in termini non strettamente
politici, e neppure filosofici, quanto, piuttosto, secondo indicazioni, più
puntuali, di tipo giuridico. E sotto questo aspetto vengono in evidenza
differenti modelli, che danno un’immagine più chiara delle diverse accezioni di
laicità.
Il
modello che proviene dall’esperienza francese mette in luce una visione del principio
di laicità che si traduce nella neutralità assoluta dello spazio pubblico e che
conduce ad una sorta di “sacralizzazione laica” dello stesso spazio pubblico.
Una prospettiva che dà attuazione ad una concezione secolaristica della
Costituzione, che implica un processo di esclusione assoluta del fattore
religioso dall’ambito pubblico.
Un
modello differente è offerto dall’ordinamento statunitense, dove sembra ancora
prevalere lo schema classico della “religione civile”, che esprime sì la forte
sacralizzazione delle istituzioni pubbliche, ma nell’ottica di un rafforzamento
del regime di separazione tra Stato e confessioni religiose. A questo proposito
è stato notato, infatti, che la religiosità istituzionale dell’ordinamento
americano risponde bene alla generica domanda di religiosità proveniente dalla
società civile, tanto bene da affrancarsi dall’influenza e dalle pressioni
delle molteplici confessioni religiose. Con la conseguenza dell’assoluta
indifferenza, in ossequio al principio di libertà individuale, rispetto al
proliferare, illimitato ed incontrollato, di sette religiose.
Si
contrappone così alla tendenziale “intolleranza” del neutrale sistema francese
la radicale “tolleranza” del modello statunitense. Che appaiono accomunati,
però, da un identico destino, costituito dall’assenza di valori, o perché tutti
negati, o perché tutti accettati, e quindi tutti uguali, senza alcuna
distinzione di carattere valutativo.
Il
modello proveniente dall’ordinamento italiano sottolinea la necessità della
libertà dello Stato e dell’individuo dalla religione, ma allo stesso tempo
comprende anche la libertà delle religioni e degli individui dallo Stato,
secondo una relazione per la quale sussiste una precisa distinzione tra la
dimensione statale e quella religiosa, sebbene allo Stato è attribuito il
compito di assolvere attivamente alle “concrete istanze della coscienza civile
e religiosa dei cittadini”.
3.
Il
principio di laicità finisce, così, per indicare, comunque, “l’assenza di ogni
riferimento religioso nel sistema politico”. A cui fa da contraltare l’apertura
ad ogni differente opzione “ideologica” in ambito pubblico: l’indipendenza del
politico dal religioso definisce la dignità di ogni diversa forma di impegno
politico; e quindi, anche di quello che si richiama a principi e valori legati
al trascendente.
L’esperienza
politica italiana è emblematica sotto questo profilo. Difatti, ad una fase di
astensione dei cattolici dalla politica attiva fa seguito una fase di
partecipazione diretta alla vita pubblica, di cui è tenace promotore Don Luigi
Sturzo, che già sul finire dell’Ottocento propugnava l’idea della creazione di
un’organizzazione politica dei cattolici, sottratta all’ingerenza diretta della
gerarchia ecclesiastica, con la finalità di favorire il loro progressivo
generale inserimento nella vita civile dello Stato. Il passo successivo è la
fondazione nel 1919 del Partito Popolare Italiano, che, laicamente, proclama
“la coscienza cristiana fondamento e presidio della vita della nazione”.
L’apporto
dei popolari è decisivo nel rifiuto degli assetti politici ispirati al
totalitarismo, ma il loro contributo è ancor più rilevante nella costruzione
del nuovo ordinamento democratico del Paese. Il secondo dopoguerra vede i
cattolici impegnati in modo diretto nell’agone della politica. E ciò tanto
all’interno delle formazioni di partito, quanto attraverso le diverse
associazioni che si diramano nei più differenti settori della vita sociale.
L’entusiasmo di affermare la specifica identità cristiana e la consapevolezza
di essere nelle condizioni di poter attuare
il sogno della formazione di una società capace di avvertire il messaggio
evangelico spinge i cattolici verso una frenetica ed invasiva attività nella
sfera pubblica. Tra gli anni Quaranta e Sessanta del Novecento la loro presenza
si avverte in modo intenso, e con una forte carica progettuale, nel mondo del
lavoro, della cultura, dello sport, del tempo libero, della scuola e
dell’università, delle professioni e si articola con organizzazioni capillari
che si irradiano sul territorio e partecipano attivamente alla realizzazione dello
sviluppo economico, culturale e sociale nazionale.
La
fede cristiana è, così, intesa come scevra da ogni connotazione intimista, di
modo che deve naturalmente tradursi in impegno nel mondo. I cristiani sentono,
cioè, di avere il compito di (ri)cristianizzare le strutture della convivenza
civile.
La
testimonianza del dr. Raffaele Gentile è precisa in questo senso. Nel rievocare
le origini dell’impegno politico e sociale dei cattolici, sottolinea che coloro
che partecipano “alla vita politica in tutte le sue forme, devono, come
cristiani e come cattolici, (…) testimoniare, ed affermare lo spirito cristiano
di verità, di unità, di moderazione, rispecchiando l’anima stessa della Chiesa.
Ma, nel far questo, non si devono limitare ad una funzione di mediazione, che
non sarebbe né creativa, né propulsiva della vita sociale, ma devono svolgere
una funzione di sintesi, che, partendo da una visione superiore, si fonda su
principii vitali e segue una linea programmatica ben definita ed adeguata alle
effettive possibilità di realizzazione storica, secondo una meta di ordine e di
socialità, tenendo conto che il fine da raggiungere è una democrazia politica e
sociale caratterizzata dall’uomo-persona, ma nel servizio al bene comune”.
4.
L’apertura
del mondo laico agli insegnamenti del cristianesimo favorisce, all’opposto,
l’apertura del cristianesimo al mondo laico. Diventa, cioè, fondamentale la
riflessione, prima teologica, e poi pastorale, sul ruolo del laicato e sul
significato della laicità del temporale. Che conduce agli approfondimenti del
Concilio Vaticano II. Nella Costituzione Gaudium
et spes (44) si trova affermato il criterio fondamentale che sta alla base
delle modalità di considerazione dei laici. Il punto di partenza è, infatti,
costituito dal principio che “la Chiesa cammina insieme a tutta l’umanità lungo
le strade della storia”, ragion per cui non soltanto deve rapportarsi con il
mondo, ma deve anche coinvolgere gli uomini che vivono nel mondo. La Chiesa
opera, quindi, al servizio del mondo, anche attraverso il contributo dei laici,
i quali, come precisa la Costituzione Lumen
Gentium (31) “per loro vocazione” sono chiamati a “cercare il regno di Dio
trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”.
Il compito dei
laici consiste, pertanto, nello svolgimento dei propri uffici alla luce dello
spirito evangelico. A loro si richiede di testimoniare, con la propria vita, la
presenza di Cristo nel mondo. L’applicazione dei principi cristiani nel “mondo
vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia, così
pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale,
degli strumenti della comunicazione sociale, ed anche di altre realtà quali l’amore,
la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro
professionale, la sofferenza” costituisce, come scrive Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi, una “forma
singolare di evangelizzazione”, che deve implicare “la messa in atto di tutte le
possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti ed operanti
nelle realtà del mondo”.
Il magistero
della Chiesa sottolinea l’importanza di vivere la fede nel quotidiano e di
affidarsi alla virtù come criterio ermeneutico dell’essere dell’uomo, nelle sue
scelte individuali, come all’interno delle relazioni sociali, nella
consapevolezza che la virtù individuale costituisce il fondamento “naturale” di
quella sociale e quest’ultima il banco di verifica, e di indispensabile
applicazione, di quella individuale (Cfr. decreto Apostolicam Actuositatem, 4).
Ciò ha
determinato il riconoscimento del “carattere secolare” del laicato non
solamente come realtà antropologica e sociologica, ma anche e specificamente
teologica ed ecclesiale. I laici non rappresentano più un elemento esterno per
la costruzione del Regno di Dio, ma sono partecipi, con la loro azione
“cristiana”, con la loro vita al servizio della persona e della società, del
processo di santificazione del mondo e della missione di salvezza della storia
umana. Come chiarisce l’Esortazione apostolica Christifideles laici, ogni cristiano laico “si trova in relazione
con tutto il corpo [della Chiesa] e ad esso offre il suo proprio contenuto”
(20).
Il senso di
corresponsabilità all’attuazione del disegno divino impone al cristiano laico
un impegno politico e sociale pieno ed assoluto, nella prospettiva di rendere
realtà effettiva da condividere il dono del Vangelo e di pervenire a pratiche
pubbliche capaci di indirizzare verso il perseguimento del bene comune. Sempre
proteso dentro la storia a “discernere
negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui – prendono
parte gli – uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza e
del disegno di Dio” (Gaudium et spes,
11).
Prof.
Alberto Scerbo
Ordinario
di Filosofia del diritto
Università
degli Studi “Magna Graecia”
Catanzaro
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